L’accensione per autocombustione o pirotecnica, a Napoli e soprattutto l’ultimo dell’anno.
Ho una relazione piuttosto vivace con il fuoco e le sue declinazioni, non solo linguistiche.
Nella mia lingua è anche correlato al litigio, è qualcosa anche molto simile al litigare stesso, che sarebbe “appiccicarse” che in italiano sembra anche somigliante assai con lo stare incollati, troppo prossimi per non tentare di distogliersi. E così è con il fuoco, la cui vicinanza non può che far incendiare, accendere.
La fine dell’anno coincide quasi con il periodo più freddo ed è ovunque pieno di tradizioni anche moderni che ricalcano riti arcaici con il tentativo di riavvicinare il sole, il calore alla terra. Il periodo più buio e più freddo è quello avvicina al nuovo, che lo fa diventare realtà con l’anno che inizia e che per annunciarlo chiede di farsi notare, in qualche modo. Chi è attento ai passaggi sa il significato che può avere un fuoco acceso, che brucia il vecchio e lasciando la cenere lascia luce, e calore che può permettere al nuovo di palesarsi, di farsi avanti. E coi fuochi d’artificio questo è più vero ancora, più eclatante; fin troppo.
Il bisogno di esistere nel pieno del cambio d’anno diventa non solo annunciato ma prepotente, urlato, perfino ostentato nell’esplodere fuochi d’artificio. E nel consesso civile questa pratica è finanche molesta, oltre che mal tollerata dalla maggioranza che però giace alla volontà di pochi, che però sono specializzati e rumorosi, assai. E spendono e quasi gareggiano ad esplodere di più, e meglio e ancora in maggior modo rispetto ad un’altra occasione o ricorrenza in cui qualcosa da urlare c’era già stata, fosse stata necessaria. Che si fosse trattato di un compleanno, di una nascita, di un matrimonio o di uno scudetto, una volta ancora l’occasione chiama a festeggiare e festeggiare significa farsi sentire, farsi notare, distinguersi ed ergersi anche se necessario calpestando il silenzio, il riposo, la quiete del prossimo. E come poter biasimare chi non ha nell’animo la stessa volontà, lo stesso desiderio di ergersi e sovrastare il suono, il clamore di un’altro essere umano che è nei paraggi? E’ così che si può finire per litigare, per buttare all’aria e al fumo la tranquillità e il raccoglimento per andare a fare a testate con la calma e la ragione, reclamando con il parente o il passante o il vicino. E’ così che si può finire che ci si appiccica, è anche così che il freddo e il buio può finire pe s’appiccià.