Sono passati 25 anni da quel tragico giorno del 20 maggio 1999 quando Massimo D’Antona, giurista e studioso di diritto del lavoro e professore universitario, venne assassinato a Roma dalle Nuove Brigate Rosse. Un commando di terroristi lo uccise a colpi di pistola in via Salaria, mentre si recava a casa. Il “professore” venne bloccato subito dopo l’incrocio con via Adda, in corrispondenza di un cartellone pubblicitario, da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, che spuntarono fuori da un furgone parcheggiato sul lato della strada. A sparare è Galesi con una pistola semiautomatica calibro 9×19. D’Antona, all’epoca consulente del ministro del Lavoro Giuliano Bassolino, venne dichiarato morto alle 9.30. La rivendicazione dell’agguato arrivò qualche ora dopo. Il messaggio, di ben 14 pagine, portava la firma delle Nuove Brigate Rosse, un partito ancora perlopiù sconosciuto nato dalle ceneri delle vecchie Br, operativo in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Diciassette persone, molti anni dopo, finirono a processo per la morte del giuslavorista: dieci perché facevano parte della banda armata, sette, più nello specifico, per aver preso parte, in un modo o nell’altro, all’omicidio.
L’omicidio di D’Antona scosse profondamente l’Italia. Massimo D’Antona era, infatti, un giurista di grande valore, ma era anche un uomo di dialogo e di impegno civile. Credeva fermamente nel confronto e nella ricerca di soluzioni condivise per i problemi del mondo del lavoro. Si era sempre battuto per i diritti dei lavoratori e per una maggiore giustizia sociale. Ma le Nuove Brigate Rosse lo identificarono come un simbolo delle recenti riforme del diritto del lavoro: un esponente di quella che definirono nel loro volantino “Borghesia Internazionale” e come complice di un piano globale per ridurre i diritti dei lavoratori.
