Giornata della Memoria, la vera storia degli ebrei di Roma venduti al potere

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Fu un rastrellamento di massa rientrato negli archivi della memoria storica italiana e segnò l’avvio delle deportazioni degli ebrei dal nostro Paese ai campi di concentramento.

Si trattò di un “contratto storico” implicito, segnato col potere nazifascista che aveva riconosciuto in quel di Roma, la presenza più antica e importante della comunità ebraica.

La presenza degli ebrei nella Capitale, ha origini antichissime: risale all’arrivo dei prigionieri della campagna di Pompeo in Giudea (63-31 a.e.c.), e soprattutto alla vittoria di Vespasiano e Tito (70 a.e.c.) che tolsero l’indipendenza ebraica al Tempio di Gerusalemme.

Lo storico ebreo Giuseppe Flavio e i rilievi dell’Arco di Tito, raccontano che i Romani portarono dalla Giudea sottomessa, schiavi, e i tesori del Tempio distrutto fra cui la menorà, il candelabro d’oro a sette bracci. Vespasiano impose il fiscus judaicus, una tassa di mezzo siclo che ogni ebreo versava all’erario.

In età imperiale la comunità ebraica di Roma vedeva ebrei raggruppati in comunità, con cariche sociali e istituzionali importanti, insegnanti e rabbini, uomini di cultura che reggevano di fatto la struttura socio-economica della città.

Rappresentavano dunque un fulcro importante per la Capitale, sede del potere, ma anche per il Paese.

Fu per questo che nel 1943 i nazifascisti decisero di colpire l’Italia nel punto che poteva rappresentare un centro nevralgico per la cultura ebraica nostrana.

Era il 16 ottobre, quando si decise di rastrellare completamente il quartiere ebraico di Roma. Si diede precedenza agli anziani, alle donne e ai bambini. Furono in 1.022 i deportati, mentre iniziò una vera e propria caccia all’uomo, per i maschi di età compresa tra i 20 e 35 anni. In 747 furono catturati, andandosi ad aggiungere al precedente numero, rispetto agli 8.000 deportati in Italia.

Sembrò davvero strano che in un unico momento si compì una operazione a tappeto. In realtà, come testimoniato molti anni dopo dalla Comunità Ebraica di Roma che avviò una ricerca, ogni ebreo era stato venduto alle SS in base ad un tariffario.

Esisteva una lista che i delatori possedevano, e a cui era stato dato un prezzo. Gli ebrei erano stati censiti ad inizio conflitto e la loro “vendita” risultò semplice.

Molti concittadini romani, colleghi o vicini di casa di un ebreo, per allearsi con i nazifascisti, iniziarono a fare la spia sui nomi degli ebrei: 5000 lire valevano gli uomini, 3000 lire le donne e 1500 per i bambini. Il corrispettivo di 5.000 euro equivaleva alla paga più alta di oggi.

Qualcuno arrivò a battezzarsi per salvarsi, ma si trattò di una persona su dieci. Altri, fecero perdere le loro tracce scappando o cambiando cognome, ma furono comunque catturati.

Quando i sopravvissuti, meno di un centinaio, rientrano a Roma, dovettero ricominciare da zero in città, avevano perso tutte le attività precedenti al rastrellamento a causa del ritiro delle licenze di esercizio, dei licenziamenti, dei bombardamenti, delle precettazioni per il lavoro coatto per rafforzare gli argini del Tevere, per le razzie naziste nelle loro case ed attività, e per la crisi economica dovuta alla guerra. Nel giugno del 1944 mancavano all’appello circa 2.000 ebrei deportati. Molti furono i bimbi rimasti orfani e
una quota significativa di famiglie doveva anche fare i conti, non avendo più il capofamiglia, con l’economia nazionale provata.
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Pina Stendardo
Pina Stendardo
Giornalista attenta ai fermenti quotidiani, raccontati con umanità. Convinta che scrivere sia un atto d’amore e responsabilità, ama divulgare il bello dell’Arte e del sociale, proponendo una narrazione alternativa sullo spaccato culturale.

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