Li chiamano working poor e stanno diventando la classe dilagante. Hanno occupazione saltuaria e conseguente reddito discontinuo. Lavorano a nero e sono sottopagati. Arrivano ad un’età avanzata dopo il licenziamento o per un continuo effetto interruttore con momenti di lavoro alternati alla disoccupazione. Sono troppo adulti per essere ritenuti lavorativamente “validi”, ma devono mandare avanti vita e famiglie sempre e comunque.
Sono i nuovi poveri. Tra essi rientrano anche molte donne che lasciano il lavoro a causa della maternità finendo in una spirale di necessità mai soddisfatta. Avrebbero bisogno di un reddito minimo garantito, ma non ci sono abbastanza fondi per adeguare le politiche del lavoro tanto da soddisfare tutti, e come se non bastasse non possono più essere percettori di reddito di cittadinanza o inclusione, come lo si voglia chiamare.
Attendono il miraggio del posto fisso, dell’occupazione con salario garantito. Eppure l’unica cosa certa che esiste ancora in Italia è la condizione persistente della necessità di far lavorare tutti e dignitosamente.
Le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti parlano chiaro. Molti lavoratori “continui” lo sono per 6-7 mesi su 12. Dovrebbero ritenersi fortunati rispetto a chi l’occupazione non ce l’ha? Ebbene, no! Si trovano comunque sotto la soglia di povertà per l’8,8%. Il 69% dei lavoratori con un numero di giornate lavorative inferiori ai 210 giorni non ha sufficienti mezzi economici. Molti discontinui hanno un reddito complessivo dichiarato poco superiore ai 15mila euro annui. Naturalmente la forbice si allarga soprattutto nel Sud Italia.
Senza considerare i lavoratori che una occupazione ce l’hanno, ma lontano da casa. Con quello che guadagnano devono dunque sostenere una doppia spesa. Hanno l’esigenza di mantenersi nel paese in cui sono occupati e di sostenere la famiglia residente nei loro luoghi di origine. Chiedono o sperano in un avvicinamento, ma anche questo risulta utopia, semmai trovando realizzazione solo dopo anni ed anni di sacrificio. A quale prezzo?
I dati Ocse parlano chiaro: l’Italia è uno dei Paesi sviluppati dove i salari reali sono diminuiti in modo esponenziale negli ultimi anni. Il potere di acquisto è calato a causa dell’inflazione, ma le retribuzioni non si sono adeguate alle nuove esigenze. Sono troppo poche le ore lavorate e retribuite contrattualmente in modo regolare, soprattutto per le donne. Il Primo Maggio è una occasione da cogliere per attivarsi senza addormentarsi sugli allori, esigendo politiche del lavoro attive e conformi agli stili di vita dei tempi che stiamo vivendo.
Secondo Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, sono necessarie, per esempio, politiche inclusive: «Si torni a un reddito minimo per tutte le famiglie in povertà assoluta e, insieme, si creino delle “Case del lavoro” nelle e delle comunità con una co-programmazione tra Comuni, centri per l’impiego e Terzo settore, per favorire una reale crescita delle politiche attive nel territorio e l’inserimento delle persone più vulnerabili o con disabilità». Sull’immigrazione, inoltre, «serve una politica regolare, non sporadica ed emergenziale, di accoglienza e integrazione». Sulle imposte, infine, oltre a un vero contrasto al sommerso, prevedendo una maggiore tracciabilità del denaro, «si bocci la deriva politica che premia la rendita e la speculazione e carica tutto su lavoro e pensioni». Perché la lotta al lavoro povero passa inevitabilmente anche da un cambio di rotta sul fisco.


