Sapeva usare le parole per esprimersi in modo schietto sostenendo i diritti altrui; eppure Michela Murgia non è mai stata così pienamente sincera con se stessa e con gli altri come quando ha scoperto di essere affetta dalla sua malattia: un carcinoma renale giunto al quarto stadio.
“Ora sono veramente libera di dire tutto”, dichiarava la scrittrice Michela Murgia dopo aver scelto di condividere via social l’evolversi della sua malattia.
Sapeva che le restava poco tempo, tanto che in un’ultima intervista aveva dichiarato: “Mi chiedono sempre come stia. Non potró mai più dire bene, ma meglio si, perché sto affrontando ogni giorno cure per stare meglio”.
E così si è spenta ieri a Roma, a 51 anni, la scrittrice sarda che è stata negli ultimi mesi simbolo della resistenza emotiva.
Quasi un presagio il suo ultimo libro ‘Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi’, edito Mondadori la scorsa primavera.

Originaria di Cabras, Michela era stata prima insegnante di religione nelle scuole, poi dirigente di una centrale termoelettrica. Si era approcciata alla scrittura attraverso un blog, Il Mio Sinis, su cui scriveva della sua terra sarda.
Il mondo deve sapere, suo primo libro, nacque ugualmente come blog, per poi diventare libro ed ancora spettacolo teatrale, fino ad ispirare il film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì.
Da qui il successo letterario costruito pian piano fino all’anno della consacrazione, il 2009, con il romanzo Accabadora che le tributa il premio Dessì, il Super Mondello e il premio Campiello.
Restituisce attraverso la comunicazione social, diritto e storia alla femminilità negata, con il format Morgana, diventato anche un libro. Parla di parità di genere, di democrazia ed antifascismo.
Il suo è un “catechismo femminista”, come sottotitola un altro suo libro e tale resta, quando sceglie di mostrarsi con coraggio mentre tira un bel sospiro e si rade i capelli prima di iniziare il percorso di chemioterapia.
Michela si mostra alle donne con la fierezza di chi affronta la malattia come tappa della vita e non si ferma, tra una cura e l’altra, nel suo impegno di divulgatrice. Dá un senso anche a questo; fa conoscere il suo concetto di “famiglia queer”, gruppo di persone, amici e “figli d’anima”, che rappresenta insieme degli affetti più cari.
E non rinuncia alla vita, nemmeno quando le sta sfuggendo, tanto da scegliere di sposarsi con rito civile “in articulo mortis” con Lorenzo Terenzi, artista conosciuto nel 2017.
Il 22 luglio Murgia fa rimbalzare sui social le immagini del suo festeggiamento queer, fino ad iniziare poi a condividere tutte le immagini che le ricordassero il senso della sua vita.
Aveva definito il matrimonio civile “uno strumento patriarcale e limitato”; per questo voleva lottare per un rito che desse alle donne piena libertà, giurando che avrebbe lavorato affinché accadesse.
Di Michela, ora che non c’è più la vita, resta lo spirito contagioso che ha toccato tante altre donne, chiamate oggi, un po’ anche per lei, a vivere una esistenza che le lasci libere realmente di respirare la loro vera essenza.


