A quasi tre anni dalla tragedia del Monte Meron, una commissione d’inchiesta ha duramente criticato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, definendolo “personalmente responsabile” della calca che causò la morte di 45 persone, tra cui 16 bambini.
Il 30 aprile 2021, decine di migliaia di ebrei ultraortodossi si erano riuniti sul Monte Meron, vicino al confine tra Israele e il Libano, per il pellegrinaggio annuale sulla tomba del rabbino Shimon Bar Yochai. La tragedia si verificò quando una porzione del sito crollò, innescando una calca incontrollata.
La commissione d’inchiesta ha puntato il dito contro la negligenza e la mancanza di preparazione da parte delle autorità. Il sito non era in grado di ospitare un numero così elevato di persone, le uscite di sicurezza erano inadeguate e la gestione della folla era carente.
Netanyahu, all’epoca premier in carica, è stato accusato di aver ignorato gli avvertimenti di sicurezza e di aver permesso che l’evento si svolgesse nonostante i rischi evidenti. “Netanyahu non ha agito come ci si aspetta da un primo ministro per correggere questo stato di cose” – si legge nel rapporto della commissione. Le conclusioni della commissione d’inchiesta hanno scatenato un’ondata di indignazione in Israele.
Netanyahu è stato duramente criticato da politici di opposizione, media e cittadini, che chiedono le sue dimissioni. Anche il leader dei laburisti, Merav Michaeli, che ha presentato alla Knesset una mozione di sfiducia, sostenendo che “questo è un governo pericoloso per lo Stato di Israele, che non sa assumersi la responsabilità né per il disastro del Monte Meron né per quello del 7 ottobre”.
Il premier ha respinto le accuse, sostenendo di aver fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza dei pellegrini.
Dalla triste vicenda la posizione di Netanyahu ne esce indubbiamente indebolita ma il Likud, partito politico del premier, ha affermato che si sta cercando di usare questa tragedia come “arma politica” ma si tratta di “un tentativo cinico e deliberato che non avrà successo”.