Esprime un’esuberanza motoria e si accompagna al verbo tenere
Da bambino ce l’avevo, eccome. Ero un essere mitologico metà ricci e metà bicicletta, e nel cortile di casa giravo, giravo, giravo.
Un cortile di cemento, con al centro un alberello di magnolia, circondato da edifici, un cancello e dappertutto vasi con piante soprattutto grasse, carnefici delle strazianti agonie di decine di miei palloni, unici compagni di giochi oltre ad un cane nero ed a un nonno assorto e solido almeno quanto il grande albero che ora è diventata quella pianticella. Si, il cortile è sempre lì, tutto quel mondo sembra immoto eppure sensibilmente cambia come tanta parte di quello che attorno muta. Ed anche io sono cambiato, eppure resto sempre lo stesso.
Ce l’avevo sì l’esuberanza motoria, e oltre a questa parola apparentemente composita che in realtà si potrebbe tradurre con l’italiano “argento vivo”, espressione che anch’essa si accompagna al verbo tenere. Che io ce l’avessi era un dato di fatto, dato dall’attitudine alla curiosità ed al piacere di impiastricciare, sperimentare, sporcare. Ho vissuto in un mondo dove per poter affermare che volevo essere diverso l’unica cosa che riuscivo a fare era essere in movimento, in attività. E muovendomi io, nella staticità di quel cortile, muovevo il mondo intorno, e prevedevo le vite che poi in realtà ho vissuto nei tanti contesti, nei tanti luoghi dove sono capitato a trascorrere vicende, a vivere pezzi più o meno intensi e pieni, di vita. E proprio la vita, oggi, mi porta sì a scrivere, ma provenendo dal sud, vivendo al nord, ed a non lasciare nessun orizzonte fuori dall’abbraccio di uno sguardo. Staticamente, ma senza fermarmi, ancora oggi, come se tenessi l‘artéteca.
Immagine in licenza CC BY-NC-ND 2.0 DEED